“Ora ho uno scopo”: perché sempre più donne curde scelgono di combattere

Il 4 settembre abbiamo appreso dal Rojava Information Center che Zeynab Serekaniye, 27 anni, combattente delle YPJ, è caduta martire l’1 settembre a Tel Tamir in seguito a un attacco turco. Qualche mese fa era stata intervistata per un reportage pubblicato su The Guardian, che abbiamo deciso di tradurre in sua memoria.

Sehid namirin, le martiri non muoiono. 

di Elizabeth Flock – pubblicato su The Guardian il 19 luglio 2021

Le file delle milizie femminili in Siria si sono nuovamente ingrossate negli ultimi anni con molte donne che hanno risposto alla chiamata alle armi nonostante i rischi.

Zeynab Serekaniye, una donna curda con un ampio sorriso e un’aria mite, non aveva mai immaginato di unirsi alla milizia.

La ventiseienne è cresciuta a Ras al-Ayn, una città nel nord-est della Siria. L’unica figlia femmina in una famiglia di cinque figli, le piaceva fare la lotta e indossare vestiti da maschio. Ma quando i suoi fratelli hanno iniziato a frequentare la scuola e lei no, Serekaniye non ha messo in discussione la decisione. Sapeva che questa era la realtà per le ragazze nella regione. Ras al-Ayn, nome arabo che significa “sorgente”, era un luogo verdeggiante e placido, perciò Serekaniye si è adeguata a passare la vita coltivando vegetali con sua madre.

Questo è cambiato il 9 ottobre 2019, giorni dopo l’annuncio del precedente presidente degli USA Donald Trump di ritirare le truppe USA dal nord-est della Siria, dove da anni si erano alleate con le forze a guida curda. Una Turchia nuovamente in forze, che vede i curdi senza Stato come una minaccia esistenziale, e contro cui i suoi gruppi affiliati sono stati in guerra per decenni, ha immediatamente lanciato un’offensiva sulle città del confine amministrate dalla forze curde in Siria del nord-est, inclusa Ras al-Ayn. 

Poco dopo le 16 quel giorno, Serekaniye racconta, le bombe hanno iniziato a cadere, seguite dal sordo tira e molla dei colpi di mortaio. In serata, Serekaniye e la sua famiglia sono scappati verso il deserto, da dove hanno guardato la loro città andare in fumo. “Non ci siamo portati niente” ha detto. “Avevamo un’auto piccola, perciò come avremmo potuto portare le nostre cose e lasciare le persone?” Mentre fuggivano, ha visto dei cadaveri per strada. Ha presto scoperto che tra di essi c’erano uno zio e un cugino. La loro casa si è trasformata in macerie.

Dopo che la famiglia di Serekaniye è stata costretta a trasferirsi più a sud, ha sorpreso sua madre verso la fine del 2020 dicendo che voleva unirsi alle Unità di Protezione delle Donne (YPJ). La milizia femminile a guida curda è stata fondata nel 2013 poco dopo la sua controparte maschile, le Unità di Protezione del Popolo (YPG), con l’intento di difendere il territorio da numerosi gruppi, tra cui lo Stato Islamico (ISIS).

La madre di Serekaniye si oppose alla sua decisione, perché due dei suoi fratelli stavano già rischiando la vita nelle YPG.

Ma Serekaniye fu inamovibile. “Siamo stati spinti fuori dalla nostra terra, perciò ora dobbiamo andare e difenderla” dice. “Prima, non la pensavo così. Ma ora ho uno scopo – e un obiettivo.”

Serekaniye è una delle circa 1000 donne in tutta la Siria che si sono unite alla milizia nel corso di questi ultimi due anni. Molte si sono unite per rabbia, a causa delle incursioni della Turchia, ma hanno deciso di restare. 

“Nelle discussioni [crescendo], era sempre ‘se succede qualcosa, un uomo la risolverà, non una donna’”, dice Serekaniye. “Ora le donne possono combattere e proteggere la società. Questo mi piace.”

Combattenti YPJ a una parata militare il 27 marzo 2019, per celebrare l’eliminazione dell’ultimo bastione dello Stato Islamico in Siria orientale.

Secondo le YPG, un’impennata nel reclutamento è anche stata dovuta all’aumento negli scorsi anni dei respingimenti e della consapevolezza dell’iniquità e della violenza di genere radicata. Nel 2019 la curda Amministrazione Autonoma della Siria del Nord e dell’Est ha approvato una serie di leggi per proteggere le donne, mettendo al bando la poligamia, i matrimoni con minori, i matrimoni forzati e i cosiddetti delitti “d’onore”, anche se molte di queste pratiche continuano. Circa un terzo degli ufficiali Asayish, i “servizi di sicurezza” curdi, nella regione sono attualmente donne ed è richiesto il 40% di presenza femminile nel governo autonomo. Un villaggio di sole donne, dove le residenti possono vivere libere dalla violenza, è stato costruito, poi evacuato a causa dei bombardamenti nelle vicinanze, e nuovamente ristabilito. 

Eppure le prove della violenza diffusa che le donne continuano ad affrontare sono abbondanti alla Mala Jin locale, o “casa delle donne”, che fornisce un rifugio e anche una forma di mediazione locale per le donne che ne hanno necessità in tutta la Siria. Dal 2014, sono state aperte 69 di queste case, con il personale che aiuta qualsiasi donna o uomo che arrivi con problemi che sta affrontando, incluse questioni di violenza domestica, molestie sessuali e stupro e i cosiddetti crimini “d’onore”, spesso collaborando con le corti di giustizia locali e le unità femminili dei “servizi di sicurezza” Asayish per risolvere i casi. 

In un giorno soleggiato di maggio, arrivano al centro Mala Jin nella città nord-orientale di Qamishli in rapida successione tre donne scosse. La prima donna, che indossa una pesante abaya verde, racconta al personale che suo marito non è praticamente tornato a casa da quando lei ha partorito. La seconda donna arriva con il marito al seguito, chiedendo il divorzio; la sua lunga coda di capelli e le sue mani tremano mentre descrive come lui una volta l’abbia picchiata finché le ha provocato un aborto. 

La terza donna si trascina pallida e con il vestito slacciato, con cenci avvolti intorno alle mani. La sua pelle è scorticata e nera a causa di bruciature che coprono parte del suo viso e del corpo. La donna descrive al personale come suo marito l’abbia picchiata per anni, minacciandola di uccidere un membro della sua famiglia se l’avesse lasciato. Dopo che un giorno le aveva versato addosso della paraffina, dice, lei è fuggita da casa; lui poi ha assunto degli uomini per uccidere suo fratello. Dopo l’uccisione del fratello, lei si è data fuoco. “Mi ero stancata”, ha detto. 

Il personale della Mala Jin, tutte donne, fanno versi di disapprovazione mentre parla. Scrivono con attenzione i dettagli del suo racconto, le dicono che hanno bisogno di fare fotografie e le spiegano di voler mandare i documenti alla corte di giustizia per assicurare l’arresto del marito. La donna annuisce, poi si stende su un divano esausta.

Behia Murad, la direttrice della Mala Jin di Qamishli, una donna più anziana con occhi gentili che indossa un hijab rosa, dice che i centri della Mala Jin hanno gestito migliaia di casi da quando hanno iniziato e, nonostante sia uomini che donne arrivino con rimostranze, “la donna è sempre la vittima”.

Un numero crescente di donne visita i centri della Mala Jin. Il personale dice che questo non è indice di maggiore violenza contro le donne nella regione, ma che più donne stanno pretendendo uguaglianza e giustizia. 

Una donna siriana legge il Corano vicino alla tomba della figlia, già combattente nelle Unità di Protezione delle Donne, nella città di Qamishli.

Le YPJ sono assai consapevoli di questo cambiamento e del suo potenziale come strumento di reclutamento. “Il nostro obiettivo non è soltanto quello di farle imbracciare un’arma, ma di essere consapevole”, dice Newroz Ahmed, comandante generale delle YPJ.

Per Serekaniye non è stato soltanto il dover combattere, ma anche lo stile di vita che le YPJ sembravano offrire. Invece di lavorare nei campi o sposarsi e avere figli, le donne che si uniscono alle YPJ parlano di diritti delle donne mentre si allenano a usare un lanciarazzi. Sono scoraggiate, anche se non hanno il divieto, dall’usare i telefoni o uscire con uomini e viene loro insegnato che la sorellanza [hevalti] con altre donne è ora il centro della loro vita quotidiana.

La comandante Ahmed, dalla voce dolce ma con uno sguardo penetrante, stima che la dimensione attuale della milizia femminile sia di circa 5000. Si tratta della stessa dimensione che le YPJ avevano al picco della battaglia contro l’ISIS nel 2014 (anche se i media hanno precedentemente riportato un numero gonfiato). Se la continua forza delle YPJ è di una qualche indicazione, dice, l’esperimento guidato dai curdi sta ancora fiorendo. 

Il numero rimane alto nonostante il fatto che le YPJ abbiano perso centinaia, se non più, di membri nella battaglia e non accettino più donne sposate (la pressione di combattere e mantenere una famiglia è troppo intensa, dice Ahmed). Le YPJ dichiarano inoltre di non accettare più donne sotto i 18 anni, dopo l’intensa pressione dell’ONU e di gruppi per i diritti umani affinché mettessero fine all’utilizzo di bambine-soldato; anche se molte delle donne che ho incontrato si sono unite da minorenni, ma ormai anni fa. 

Guidando attraverso la Siria del nord-est, non ci si meraviglia che così tante donne continuino a unirsi, data l’ubiquità delle immagini di sorridenti donne shahid [termine arabo, in curdo şehid, ndt] o martiri. Donne combattenti cadute vengono ricordate su cartelloni colorati o con statue che svettano orgogliosamente dalle rotonde. Enormi cimiteri sono pieni di shahid, piante rigogliose e rose che crescono dalle loro tombe. 

Lo scontro con la Turchia è una ragione per mantenere le YPJ, dice Ahmed, che parla dalla base militare di al-Hasakah, il governatorato del nord-est in cui le truppe USA sono tornate dopo che Joe Biden è stato eletto. Afferma che l’uguaglianza di genere è l’altra. “Continuiamo e vedere molte infrazioni [della legge] e violazioni contro le donne nella regione” dice. “Stiamo ancora combattendo la battaglia contro la mentalità ed è persino più dura di quella militare.”

Tel Tamr, la base delle YPJ in cui Serekaniye è collocata, è una città storicamente cristiana e in qualche modo sonnolenta. I beduini pascolano le pecore nei campi, i bambini camminano a braccetto tra le vie del villaggio e il lento accumularsi di tempeste di polvere è un evento regolare nel pomeriggio. Eppure, gli interessi curdi, USA e russi sono tutti presenti qui. Sosin Birhat, la comandante di Serekaniye, dice che prima del 2019 la base YPJ di Tel Tamr era piccola; ora, con sempre più donne che si uniscono, la descrive come un intero reggimento. 

La base è un edificio di cemento beige a un piano, una volta occupato dal regime siriano. Le donne coltivano fiori e verdure nel terreno accidentato sul retro. Non hanno campo per i telefoni o energia elettrica per usare il ventilatore, anche nel caldo afoso, perciò passano il tempo nei loro giorni liberi, lontane dal fronte, facendo battaglie con l’acqua, fumando e bevendo caffè zuccherato e tè. 

Vita quotidiana di Zeynab Serekaniye a Tel Tamr.

Eppure la battaglia è sempre nelle loro menti. Viyan Rojava, una combattente più esperta di Serekaniye, parla di riprendersi Afrin. Nel marzo 2018, la Turchia, con l’Esercito Siriano Libero ribelle che spalleggia, ha lanciato l’operazione “Ramoscello d’ulivo” (Olive Branch) per prendersi il distretto nord-orientale, amato per i suoi campi di ulivi. 

Dall’occupazione turca di Afrin, decine di migliaia di persone sono state sfollate – la famiglia di Rojava tra loro – e più di 135 donne rimangono disperse, secondo i report dei media e dei gruppi per i diritti umani. “Se queste persone vengono qui, faranno lo stesso a noi” dice Rojava, mentre altre combattenti annuiscono in assenso. “Non lo accetteremo, perciò imbracceremo le armi e ci opporremo.”

Serekaniye ascolta con attenzione mentre Rojava parla. Nei cinque mesi da quando si è unita alle YPJ, Serekaniye si è trasformata. Durante la formazione militare a gennaio si è rotta una gamba cercando di scalare un muro; ora riesce facilmente a maneggiare il suo fucile. 

Mentre Rojava parla, il walkie-talkie accanto a lei gracchia. Le donne alla base vengono chiamate al fronte, non lontano da Ras al-Ayn. Non c’è molto combattimento attivo in questi giorni, ma mantengono le loro posizioni in caso di un attacco a sorpresa. Serekaniye indossa il suo giubbotto, prende il suo kalashnikov e una cintura di proiettili. Poi entra in un SUV diretto a nord e si allontana velocemente.

Difendere il Rojava significa difendere Abdullah Öcalan

Il Rojava è un’utopia vivente, una visione di come il mondo potrebbe apparire dopo il capitalismo e di come possiamo arrivarci. Il Rojava è una prospettiva in un tempo pieno di attacchi. Se parli di Rojava, allora devi parlare anche di Abdullah Öcalan.

Traduciamo un testo della Comune Internazionalista, pubblicato il 4 aprile 2021, in occasione del compleanno di Abdullah Öcalan.

Ci sono giorni in cui non riusciamo più a vedere il cielo con così tanti nemici intorno a noi. L’apocalisse sembra più probabile della fine del capitalismo e siamo circondati da attacchi patriarcali – dentro e fuori di noi. A volte non riesco più a credere che possiamo fare la rivoluzione – rivoluzione, cosa significa poi? Una vita diversa? Tutto questo sembra così distante, così astratto – davvero come un’utopia distante. E in tutta questa depressione della sinistra, il Rojava è come un enorme baluardo di speranza. Il Rojava, che è una rivoluzione del XXI secolo. Questa è una rivoluzione che combina così tante lotte, così tante idee – una società che si auto-organizza, una società senza Stato, una società basata sulla liberazione di genere e l’ecologia. Una rivoluzione antifascista contro il colonialismo, contro l’imperialismo. Il Rojava è la prova che un’altra vita è possibile – il Rojava è un’utopia vivente, una visione di come il mondo potrebbe apparire dopo il capitalismo e di come possiamo arrivarci. Il Rojava è una prospettiva in un tempo pieno di attacchi. 

Se parli di Rojava, allora devi parlare anche di Abdullah Öcalan. Spesso, durante le manifestazioni si vede ammirazione sui volti quando si tratta di Rojava e si sentono urlare slogan comuni come “Jin Jiyan Azadi” [Donna, Vita, Libertà]; ma poi si sventolano immagini di Öcalan o si tiene un discorso per la sua libertà e si vedono apparire dubbi sui volti. Li senti dire: il Rojava è grandioso, ma Öcalan? Meglio di no. 

C’è questa enorme discrepanza – e mi chiedo: perchè? E penso – è pericoloso!

Chiunque ignori Öcalan si sta perdendo il meglio della filosofia e della pratica rivoluzionaria che il XXI secolo ha da offrire. Senza Öcalan e il PKK, la rivoluzione in Rojava non sarebbe mai stata possibile. È sulla sua filosofia e anche sulla sua lotta politica che si basa la rivoluzione in Rojava. 

La rivoluzione non avviene in un giorno e la filosofia di Öcalan e la rivoluzione in Rojava sono il risultato di un processo di lotta e organizzazione lungo decenni. Le radici della rivoluzione in Rojava affondano molto in profondità, almeno negli anni Settanta – il secondo ciclo rivoluzionario del XX secolo, con tutte le lotte femministe, anticoloniali e antifasciste. È stato durante questo periodo che è iniziata la lotta filosofica e politica di Öcalan. Nel 1978, Öcalan ha fondato il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, il PKK – in risposta alla brutale oppressione e al genocidio culturale dei curdi – l’obiettivo a quel tempo era uno Stato indipendente. Il PKK ha iniziato come un movimento di liberazione nazionale marxista-leninista, come è avvenuto anche in molti altri posti. Ci sono stati molti movimenti rivoluzionari nel XX secolo, molti hanno fatto la rivoluzione, molti sono diventati partiti al potere in nuovi Stati-nazione e ancora di più sono stati sconfitti, specialmente negli anni Novanta. Comunque, il PKK ha preso un sentiero diverso, non è stato schiacciato, ma ha spianato la strada per le rivoluzioni del XXI secolo, per la rivoluzione del Rojava. È importante dare un’occhiata agli anni Novanta per comprenderlo al meglio. 

Gli anni Novanta praticamente sono stati il periodo di una grande contro-rivoluzione – la fine dell’URSS, la cosiddetta “fine della storia”, l’intensificarsi della morsa neoliberista e l’ascesa del fascismo in tutto il mondo. Quasi tutti i movimenti di libertà sono caduti in una profonda crisi in questo periodo – il mondo è cambiato rapidamente, ma sono venute meno un’analisi e una prospettiva comuni della sinistra. La fiducia nella rivoluzione si è persa e molti movimenti rivoluzionari hanno rinunciato alla lotta, venendo a patti con gli Stati o riducendosi a piccole sottoculture controllabili. La crisi degli anni Novanta è stata soprattutto una crisi filosofica – le idee e le analisi della sinistra del XX secolo raggiunsero i loro limiti e molti movimenti fallirono anche a causa dei loro stessi errori.

In questa grande crisi intellettuale della sinistra, Öcalan intensifica i suoi sforzi per sviluppare nuove teorie e pratiche rivoluzionarie. Analizza la storia – la storia dei movimenti di resistenza, le resistenze anarchiche, femministe e anti-coloniali, e la storia della dominazione indietro fino alle sue prime radici – le fondamenta del patriarcato 5000 anni fa. Ripensa le analisi del marxismo e sviluppa una nuova visione della storia, della rivoluzione, della società, della dominazione – cercando risposte sul perché i movimenti rivoluzionari degli scorsi secoli abbiano fallito e cosa si può imparare da loro. E si chiede cosa possa davvero significare il nostro obiettivo – una vita libera.

Öcalan sviluppa il confederalismo democratico come un nuovo concetto rivoluzionario e il PKK usa il periodo della crisi degli anni Novanta e fa la rivoluzione, una rivoluzione filosofica – una rivoluzione interna. Cambia il suo paradigma e rinuncia all’aspirazione di avere il suo proprio Stato – perché gli Stati sono parte del problema e una vita libera non può mai essere raggiunta in uno Stato. Su queste basi, anche la liberazione di genere diventa il cuore della lotta – perché il patriarcato è la prima di tutte le forme di dominazione e senza la liberazione delle donne, la società non potrà mai diventare libera. E come oggi in Rojava il movimento delle donne è al centro ed è la forza trainante della rivoluzione, così è anche nel PKK – dalla sua guerriglia delle donne, YJA Star, al partito gemello del PKK, cioè il Partito delle Donne Autonome (PAJK). Anche la questione delle relazioni diventa centrale per la lotta – relazioni che abbiamo all’interno di noi stessi e gli uni con gli altri – perché la dominazione lavora istituendo alcuni tipi di relazioni. Se non possiamo eliminare il patriarcato nelle nostre relazioni, non possiamo costruire una vita libera! La vita libera insieme [Hev Jiyan Azad] e il compagnerismo [Hevalti] sono la chiave per essere noi stessi [Xwebûn], la chiave per relazioni libere che non siano più dominate da 5000 anni di oppressione.

La filosofia di Öcalan è teoria, ma la filosofia di Öcalan è anche pratica. In Rojava la sua filosofia è diventata una rivoluzione – un’utopia vissuta. 

Öcalan è pericoloso

Öcalan e il PKK hanno fatto la rivoluzione. Una rivoluzione che dà speranza a milioni di persone e che è pericolosa. Se le idee del confederalismo democratico continuano a diffondersi, se le persone iniziano a credere davvero nella rivoluzione, in una vita di  nuovo diversa, se c’è una reale alternativa concreta al capitalismo, allora abbiamo l’opportunità di cambiare davvero le condizioni, di compiere una rivoluzione. Una vera rivoluzione, che non avverrà in un qualche futuro distante, ma che può essere il nostro presente.

Niente è più pericoloso che credere nel cambiamento! Gli Stati-nazione al potere sono tutti troppo consapevoli di ciò e hanno fatto molto da allora per fermare Öcalan e il PKK. Öcalan è stato rapito dall’ambasciata greca in Kenya nel 1999 da un’operazione dei servizi segreti di diversi Stati e da allora – da 22 anni – è stato da solo in reclusione sull’isola-prigione di Imrali. Per anni senza nessun contatto con il mondo esterno. Öcalan è, a parte tutto il resto, un prigioniero politico che è stato torturato per 22 anni. Gli Stati hanno paura di Öcalan – e quanto grande è la loro paura si può vedere nelle misure grottesche di repressione contro di lui e il movimento di liberazione curdo. Un esempio – il divieto delle immagini. In Germania, ci sono soltanto due persone le cui fotografie sono pubblicamente vietate. Öcalan e Hitler.

Pretendere la libertà di Öcalan significa tenersi stretti alla vita libera

Il fatto che Öcalan sia così sconosciuto nel movimento della sinistra in Europa oggi ha molte ragioni, tra di esse ci sono sicuramente l’orientalismo e il razzismo. Se un filosofo o attivista europeo avesse raggiunto anche solo la metà delle cose o ispirato anche solo la metà delle persone rispetto a Öcalan, probabilmente sarebbe decantato come un semi-dio. Ma la distanza della sinistra da Öcalan è anche dovuta a una politica di isolamento e repressione molto riuscita. Dobbiamo fare breccia in questo isolamento. Ci sono centinaia di ragioni per sostenere la libertà di Öcalan. Sia perché è un prigioniero politico. Sia perché è un combattente per la libertà anti-coloniale. Sia perché la sua filosofia e la sua lotta hanno iniziato una nuova rivoluzione. La filosofia di Öcalan mostra nuove vie per una rivoluzione nel XXI secolo – e osiamo dire che il Rojava è solo l’inizio. L’idea del confederalismo democratico influenzerà e porterà a molte rivoluzioni in tutto il mondo nei decenni a venire. 

Il Rojava è un baluardo di speranza. E lo stesso è Öcalan. Per il popolo curdo, ma anche per tutto il resto di noi che esigiamo una vita differente, una vita libera. Difendere il Rojava non significa soltanto difendere un pezzo di terra, significa difendere la filosofia dietro di esso e portarla in tutto il mondo, facendola diventare l’incubo del capitalismo. Difendere il Rojava significa fare la rivoluzione in tutto il mondo e cercare la vita libera. E difendere il Rojava significa anche lottare per la libertà di Öcalan – per la fine del suo isolamento. 

Dem Dema Azadi Ye – È tempo di libertà

Il XXI secolo è il secolo della rivoluzione delle donne

Come donne stiamo combattendo una grandiosa lotta ogni giorno e per noi l’8 marzo è una giornata di grande importanza.

Traduciamo il comunicato pubblicato il 27 febbraio 2021 da Women Defend Rojava.

L’8 marzo viene celebrato in tutto il mondo da più di un secolo come giornata internazionale di lotta delle donne. In questa giornata, le donne insorgono più che mai e uniscono le loro rivendicazioni di libertà e la lotta per i loro diritti. Questa giornata annuncia al mondo intero che le donne combattono e resistono non soltanto un giorno, ma ogni giorno e in ogni momento della vita. In aggiunta alla lotta per i diritti e per la libertà delle donne, si fanno i conti anche con i diritti dellə bambinə, con questioni sociali, ambientali e altre problematiche. Perché noi comprendiamo chiaramente che l’oppressione delle donne significa anche oppressione della società ed è uno dei suoi problemi più antichi.

L’ideologia patriarcale all’interno delle nostre società è evidente e più che mai noi come donne comprendiamo la sua realtà in tutto il mondo. Noi comprendiamo chiaramente che attraverso l’asservimento e l’occupazione delle donne, si stanno consolidando quegli stessi sistemi oppressivi di dominazione, puntando a noi come donne e compiendo femminicidi. Di conseguenza, la violenza contro le donne come politica del sistema patriarcale del capitalismo ha raggiunto livelli di terrore e genocidio in anni recenti. In contrasto, comunque, vediamo anche che le donne in tutto il mondo non stanno inerti a guardare, ma la loro lotta ha raggiunto una forza rivoluzionaria. 

Le donne di tutti i Paesi, le culture, le etnie e le religioni hanno deciso di ribellarsi a qualsiasi aggressione che provi a minacciare le nostre vite: come donne, noi difendiamo la nostra esistenza, i nostri territori, le nostre culture e le nostre società. Basandoci sulla solidarietà delle donne di tutto il mondo, organizziamo le nostre lotte che hanno segnato e segneranno il XXI secolo. 

Il XXI secolo è il secolo della rivoluzione delle donne e noi continueremo la nostra resistenza di conseguenza. L’eliminazione sistematica di donne e società può essere fermata soltanto attraverso le rivoluzioni delle donne, che devono essere rafforzate in tutte le aree e in ogni momento della vita. Abbiamo visto con speranza che le donne in tutto il mondo stanno attivamente e collettivamente combattendo contro tutte le forme di dominazione. Dalla Bolivia al Messico, dalla Francia alla Spagna, dalla Polonia all’Argentina, dall’Egitto al Pakistan, dall’Afghanistan all’Iran e dal Baluchistan al Kurdistan, e ancora oltre, le donne stanno resistendo con voci e colori uniti. 

Nel corso dello scorso anno, le donne in tutto il mondo si sono riprese le strade e hanno resistito alle istituzioni a dominazione maschile che rendono infernali le loro vite. Con un’ampia varietà di slogan, hanno portato le loro voci nel mondo con forza. Ci prenderemo carico delle urla delle nostre sorelle resistenti e le porteremo avanti. Perché l’origine della nostra oppressione in quanto donne, e quindi l’origine della nostra oppressione in quanto società, deriva dalla stessa mentalità. Siamo pronte a reagire e a mettere fine alla mentalità patriarcale e alla violenza una volta per tutte.

Comunque, come donne dalla Siria del Nord-Est e dal Rojava, abbiamo anche imparato che la lotta e la rivoluzione delle donne portano molto dolore e perdita. Lo scorso anno abbiamo perso le nostre amate compagne Zehra, Hebûn, Dayika Emine, Saada e Hind, che vivevano il loro amore e la loro devozione alla libertà delle donne e conducevano una strenua lotta contro la mentalità patriarcale, che è il motivo per cui sono state colpite dall’assassinio. 

Comunque, questo può solo rafforzare la nostra volontà e convinzione a vendicare le nostre compagne che hanno dato la vita per la libertà delle donne. Sappiamo di non star combattendo da sole. L’uccisione delle nostre compagne è stato un attacco a tutte le donne che si organizzano, un tentativo di alienarci perché sanno che l’organizzazione è la nostra arma migliore. Organizzate, non soltanto resisteremo per difenderci, ma metteremo anche fine al femminicidio. 

Come donne stiamo combattendo una grandiosa lotta ogni giorno e per noi l’8 marzo è una giornata di grande importanza. Qui in Rojava e in Siria del Nord-Est, il luogo della rivoluzione delle donne, celebriamo la giornata di lotta delle donne di quest’anno con lo slogan: “LA NOSTRA LOTTA GARANTIRÀ LA RIVOLUZIONE DELLE DONNE”. A tutte le donne in tutto il mondo vorremmo dire: lunga vita all’8 marzo! Lunga vita alla giornata di lotta delle donne! Mostriamo il nostro massimo rispetto a tutte le donne e alle persone che contribuiscono a questa preziosa lotta!

DONNE VITA LIBERTÀ! JIN JIYAN AZADî!

Women Defend Rojava

Eddi Marcucci: l’internazionalista che rifiuta di piegarsi

Un tribunale italiano ha confermato la sorveglianza speciale contro l’ex combattente YPJ “Eddi” Marcucci. Questo è un altro caso di repressione contro gli internazionalisti di ritorno dal Rojava.

Traduzione dell’articolo pubblicato il 20 febbraio 2021 su ANFDeutsch.

L’internazionalista italiana “Eddi” Marcucci è sotto sorveglianza statale dopo essersi schierata con le YPJ in Rojava. Il verdetto contro di lei stabilisce un pericoloso precedente per disciplinare una donna politicamente attiva.

Questo è stato annunciato dai gruppi Berlin Migrant Strikers e Women Defend Rojava, entrambi di Berlino, in un comunicato congiunto:

Dietro le quinte di uno scenario di un’Europa che si finge unita nella lotta al comune nemico pandemico, si nascondono e consumano abusi e scandali giudiziari che rimangono silenti e procedono indisturbati fino al loro più completo espletamento.

Lo scorso dicembre 2020, il tribunale di Torino ha confermato in appello la sentenza a due anni di sorveglianza speciale a Maria Edgarda Marcucci, detta “Eddi”, la giovane studentessa italiana che ha combattuto in Rojava contro l’Isis, arruolandosi nelle Unità di protezione delle donne curde (YPJ) e sostenendo la rivoluzione del Confederalismo Democratico. Pur essendo incensurata, la giovane attivista è stata a costretta subire un “lockdown al quadrato”: Eddi si è vista privata delle libertà fondamentali che un tribunale avrebbe invece il compito di tutelare, come la possibilità di spostarsi liberamente e partecipare ad attività, eventi e manifestazioni politiche, nonché più in generale di frequentare posti pubblici oltre le 18. Le è stato ritirato il passaporto, con conseguente divieto di espatrio e obbligo alla verbalizzazione di ogni spostamento e attività usando una “carta precettiva” da esibire su richiesta alle forze dell’ordine. La motivazione di una sentenza così severa – afferma la procura – è da attribuire alla sua presunta “pericolosità sociale”: Eddi, in quanto arruolata con le milizie a difesa del popolo curdo, avrebbe imparato l’uso di armi e  inoltre, al suo rientro in Italia, non avrebbe mai smesso di militare attivamente nei movimenti femministi, antifascisti, anticapitalisti ed ecologisti, tra cui spicca la lotta No Tav, un movimento che resiste da decenni contro la devastazione ambientale causata dalla costruzione di una linea ferroviaria ad alta velocità nelle valli a nord di Torino.

Da sottolineare come Eddi inoltre sia stata l’unica donna tra gli italiani (Paolo Andolina, Jacopo Bindi, Pierluigi Caria, Davide Grasso e Fabrizio Maniero) rientrati dal Rojava negli anni 2017-2018, ma anche l’unica alla e per la quale è stata proposta, e alla fine convalidata, la sorveglianza speciale, richiesta inizialmente dalla procura di Torino anche per i compagni sopracitati. Una condanna che fa riflettere, soprattutto alla luce del fatto che Eddi, così come gli altri, non ha commesso alcun reato. La sorveglianza speciale è infatti un provvedimento assegnato senza evidenze concrete, quasi unicamente sulla base delle dichiarazioni della Digos. Il profilo tracciato è quello di una donna mentalmente instabile e aggressiva che potrebbe persino risultare violenta se confrontata da sostenitori di ideologie diverse dalle sue. Quella che infatti è già stata definita da moltissimi intellettuali ed esponenti accademici come una “sentenza ideologica” fa particolarmente inorridire se ci si sofferma a riflettere su come la stessa sorveglianza speciale sia di fatto un’eredità del codice Rocco (regio decreto dell’era fascista) nata come strategia di prevenzione e strumento di controllo del dissenso, teso a soffocare qualsiasi tentativo di attivismo sociale e politico. La sorveglianza speciale non ha infatti come unico compito la prevenzione di un potenziale reato, quanto quello più subdolo di rieducare il soggetto e di riportarlo dentro modelli sociali più accettabili. Dietro sbarre esistenti ma trasparenti, viene eseguita una strategica mossa pedagogica. Si attaccano, così, brutalmente, le relazioni, i luoghi abituali, le pratiche e le consuetudini, riuscendo a distruggere l’identità soggettiva cercando di conseguire l’addomesticamento di una personalità stigmatizzata dal giudizio di “socialmente pericolosa” per aver preso parte a proteste e atti di disobbedienza civile. Una pesante repressione politica a cui la procura di Torino non è per niente nuova, avendo negli ultimi anni condannato proprio diversi militanti del movimento No Tav a pene spropositate per il solo fatto di aver dimostrato dissenso contro un’opera ecologicamente disastrosa, ma fortemente voluta dallo Stato così come da parti del capitale nazionale ed europeo. Ugualmente quindi, anche nel caso di Eddi, la sentenza sembra arrivare a conferma degli interessi economici dello Stato italiano. Uno Stato che da un lato aderisce alla Coalizione internazionale anti-ISIS, ma che poi non si impegna direttamente nel sostegno militare alla resistenza delle forze del Confederalismo Democratico curdo, finanziando invece i Peshmerga Iracheni, più volte inerti di fronte alla barbarie di Daesh, e restando anzi, con ben 18 miliardi di euro di scambi annui, uno tra i principali partner commerciali della Turchia, il secondo nell’Unione Europea e il quinto a livello mondiale. Uno Stato che non ha espresso il minimo dolore per la morte di altri due italiani combattenti nelle YPG, Lorenzo Orsetti, noto come “Orso”, e Giovanni Francesco “Hîwa Bosco” Asperti, caduti proprio negli stessi territori e per difendere gli stessi ideali della compagna Eddi.

Alla luce di queste trame economiche e politiche è quindi vergognosa, ma allo stesso tempo non sorprende, una sentenza che in un colpo solo delegittima, criminalizzandole, la partecipazione alla resistenza curda in Siria e la militanza anti-capitalista e anti-fascista in una Paese europeo. Il tutto continuando a finanziare il continuo rifornimento di armi alla Turchia. Una sentenza così priva di reati risulta clamorosa e costituisce di fatto un punto di non ritorno, essendo stata per la prima volta applicata in Italia ai cittadini che vanno a combattere in Rojava e diventando quindi un rischioso precedente anche per chiunque creda tanto nella causa curda quanto nella libera manifestazione del proprio dissenso.

Pur essendo quello di Eddi l’unico caso di sorveglianza speciale imposto ad una combattente di rientro dalla guerra in Rojava, non è purtroppo l’unico caso in Europa; in molti Stati europei altri combattenti hanno affrontato conseguenze legali, a dimostrazione di una comunanza di intenti nella lotta al dissenso. Eddi si aggiunge quindi ad una lista che ha visto anche altri protagonisti europei vittime di altrettanti accaniti apparati giuridici che, in nome della salvaguardia collettiva, non indugiano a decretare custodie e sorveglianze a cittadini europei che hanno combattuto al fronte nord-siriano. E’ il caso della danese Joanna Palani, figlia di rifugiati politici curdi in Danimarca, che al rientro in Europa dopo la militanza in Rojava è stata tenuta in custodia dal governo danese (2015). Successivamente anche il Regno Unito si è distinto in questo scenario di paradossale di violazione dei diritti umani, arrestando al rientro in UK (2018) tre inglesi arruolati nelle YPG: Jamie Janson, Aidan James e Jim Matthews. Infine il caso tedesco di Jan-Lukas Kuhley, che nell’ottobre 2019 si è visto agenti con un mandato di perquisizione in casa sua a Karlsruhe. Accusato sulla base del §129b di aver combattuto con “milizie di natura terroristica”, Kuhley e la sua lotta hanno generato anche in Germania un acceso dibattito. Per le autorità tedesche, analogamente a quelle italiane per il caso di Eddi, l’addestramento militare in un esercito straniero e l’acquisita esperienza in combattimento sarebbero state infatti motivazioni sufficienti ad indagare Kuhley in quanto potenziale terrorista. Una definizione che il giovane tedesco, dopo diversi mesi spesi in Rojava a combattere il terrorismo vero, quello dell’ISIS, estrema manifestazione di una società dominata ancora da evidenti e persistenti dinamiche patriarcali, aveva decisamente respinto. Per Jan-Lukas Kuhley l’aver militato nelle YPG significava aver contribuito non solo alla resistenza curda contro la Turchia e lo Stato Islamico, ma anche alla realizzazione di un modello di società basata sul confronto costante tra tutte le parti sociali, coinvolte in misura sempre maggiore nei processi decisionali, su un’agricoltura eco-sostenibile e su una lotta capillare alla discriminazione di genere, in ogni sua forma.

Nonostante, dunque, questi giovani militanti abbiano avuto il coraggio di rischiare la loro vita per combattere l’ISIS, sono stat* tutt* privat* delle libertà fondamentali sulla base di una sospetta, ma mai comprovata, pericolosità. Contro questa misura Eddi Marcucci farà ora ricorso in Cassazione. Ma non solo: oltre ad aspettare l’ultimo grado di giudizio, Eddi ha sin da subito espresso la volontà di non volersi piegare al più controverso dei divieti che le sono stati imposti, quello di partecipare ad eventi pubblici e politici. Una violazione che potrebbe costarle il carcere, e che tuttavia sembra essere un atto dovuto di disobbedienza civile contro una sentenza che, in sintonia con le altre in Europa, vorrebbe mettere a tacere chi ha combattuto e ancora combatte per la causa curda.

A tre anni dall’occupazione di Afrin

Come movimento delle donne Kongra Star, promettiamo di rafforzare la nostra resistenza e la nostra lotta fino alla liberazione di Afrin, Girê Spî e Serêkaniyê, di proteggere le conquiste della rivoluzione delle donne e difendere la sicurezza del Rojava.

Traduciamo il comunicato del Kongra Star pubblicato il 19 gennaio 2021 in occasione del terzo anniversario dall’occupazione turca di Afrin.

Sono passati tre anni dall’attacco e dall’occupazione della regione di Afrin, la cui popolazione ha mostrato una resistenza senza precedenti e ha risposto a tutte le forme di violenza, dagli attacchi con armi pesanti ai bombardamenti dell’aviazione turca. Questa resistenza, che si è estesa dai villaggi circostanti fino al centro della città, è stata caratterizzata dalla fermezza dei/lle suoi/e combattenti, si è protratta per 58 giorni ed è stata segnata dalla lotta coraggiosa di martiri come Avesta Xabûr e Barîn Kobanê.

Lo Stato turco ha potuto occupare Afrin solo dopo aver utilizzato le armi più pesanti, decine di migliaia di mercenari jihadisti inquadrati nei ranghi del cosiddetto Esercito Siriano Libero e sotto la copertura e il silenzio della comunità internazionale. Proprio nel momento in cui gli interessi internazionali convergevano, portando a diversi accordi per dividere il territorio della Siria. Tutto questo è avvenuto a spese del popolo siriano che è stato costretto a fuggire dall’occupazione dopo aver subito violenze quali saccheggi, uccisioni, crimini di guerra, distruzione di luoghi antichi, abbattimento di alberi, sostituzioni demografiche, messa al bando della propria lingua madre, imposizione della lingua turca.

È noto che, prima dell’occupazione, Afrin era una delle zone più stabili e sicure, caratterizzata da diversità culturale e convivenza, oltre che un rifugio per gli/le sfollati/e siriani/e giunti/e lì per scappare dalla lunga guerra. Va detto che il progetto sociale dell’Amministrazione Autonoma [della Siria del Nord-Est] è stata una delle soluzioni migliori alla guerra in corso in Siria per eliminare ogni forma di razzismo e fondamentalismo religioso.

Lo Stato turco ha cercato con tutti i mezzi di sconfiggere il progetto democratico nella regione perché costituisce una minaccia per i regimi autoritari e dittatoriali della zona. Con l’invasione di Afrin e le atrocità che ne sono seguite lo Stato turco ha mostrato il suo vero volto. Perché dopo che lo Stato islamico (ISIS) è stato sconfitto dai/lle combattenti delle QSD/SDF [Quwwāt Sūriyā al-Dīmuqrāṭīya/Forze Siriane Democratiche], delle YPG e delle YPJ [Yekîneyên Parastina Gel/Jin – Unità di Protezione del Popolo e delle Donne], lo Stato turco si è mostrato come il principale sponsor dell’ISIS, con l’obiettivo di distruggere la nostra rivoluzione.

Ma lo Stato turco non è soddisfatto di questa occupazione e sta continuando a sferrare i suoi attacchi per distruggere il progetto di autonomia democratica occupando le zone di Serêkaniyê/Ras al-Ayn e Girê Spî/Tell Abyad e attaccando le regioni di Shehba, Ain Issa, Zirgan e Til Temir. Tutto questo sotto gli occhi del mondo e di quelle istituzioni e organizzazioni che dicono di impegnarsi per i diritti umani, ma sono rimaste in silenzio. Sono rimaste in silenzio e non hanno fatto nulla.

Condanniamo e denunciamo queste organizzazioni internazionali e quelle per i diritti umani che con il loro silenzio sostengono l’occupazione, il genocidio etnico e culturale sistematico che si sta portando avanti nella regione e la sostituzione demografica, lo sfollamento forzato e la violenza che subisce ogni giorno la popolazione di Afrin, contro la terra e le persone, estendendo così la minaccia alle altre regioni. Pertanto, chiediamo alle organizzazioni per i diritti umani di intervenire, di adempiere al loro dovere umanitario, di rispettare i diritti umani e di lavorare per porre fine all’occupazione e permettere così alla popolazione di Afrin di tornare a casa e garantire la sua sicurezza e la sua protezione.

Come movimento delle donne Kongra Star, promettiamo di rafforzare la nostra resistenza e la nostra lotta fino alla liberazione di Afrin, Girê Spî e Serêkaniyê, di proteggere le conquiste della rivoluzione delle donne e difendere la sicurezza del Rojava, di seguire le orme dei/lle martiri, di procedere nel loro percorso e di continuare a costruire il progetto di nazione democratica e vivere in comunione con tutte le società presenti nella regione.

Coordinamento del Kongra Star
19 gennaio 2021