Raqqa e Manbij: dal regime di Daesh alla rivoluzione delle donne (testimonianza delegazione rete jin)

Raqqa, effetti dei bombardamenti sulla città (Luglio 2019)

Continuando il nostro viaggio, percorrendo le rive dell’Eufrate e spostandoci verso l’ovest della Siria arriviamo a Raqqa, città ex roccaforte dello Stato Islamico, considerata a lungo la capitale jihadista. Appena arrivate notiamo un contrasto enorme tra una città distrutta e rasa al suolo che allo stesso tempo si riempie di vita, di bambini che giocano per le strade, di piccole attività commerciali e del traffico squillante tipico di tutte le città che abbiamo incontrato fino ad ora. Sin dai primi passi che facciamo nelle strade di Raqqa capiamo come la popolazione non abbia abbandonato la sua città, ma stia provando a ricostruirla non solo in termini fisici ma anche sociali. Conosciamo bene la storia di Raqqa, se ne è parlato a lungo due anni fa, nel 2017, quando le Unità di Difesa del Popolo e delle Donne, YPG e YPJ, assieme alle Forze Democratiche Siriane, SDF, con il supporto delle forze americane, hanno liberato questa città dalle bandiere nere dell’ISIS. Il primo incontro che abbiamo a Raqqa è con il ‘’Reverberiya Jinê ya Reqayê”, il corrispettivo del Kongreya Star delle donne di Raqqa. “Ero qui da prima che arrivasse Daesh’’ ci racconta Heval Zalikà “ho vissuto tutto il periodo di invasione del califfato. Prima di Daesh c’era il regime e come donne non eravamo libere, ma ridotte a marginalità, non avevamo nessun peso nella società. Sotto il regime difficilmente ci era concessa la possibilità di frequentare l’università o di esprimerci liberamente, avevamo la possibilità di insegnare nelle scuole ma non era nelle nostre mani la possibilità di scegliere di poterlo fare o meno. Quando è arrivato Daesh la situazione è diventata insostenibile: ci è stato negato tutto, non potevamo mostrare neppure i nostri occhi, eravamo costrette a coprire integralmente il nostro corpo.” Zalikà continua la sua testimonianza raccontandoci che proprio nella città e nelle strade che in questo momento stiamo girando, sono molte le donne che sono state uccise, e molte altre, come le yezide, sono state vendute come animali. Bambine dai 10 ai 12 anni venivano costrette a sposarsi, anche con uomini molto più grandi. Se per qualche motivo queste spose bambine perdevano il marito potevano essere consegnate in spose ad altri uomini dell’esercito di Daesh, fino ad arrivare a quaranta matrimoni. Zalikà ci spiega come questo stato di terrore fosse reso possibile dagli uomini del califfato grazie a un meccanismo di pressioni, fatto di torture e ricatti verso l’intera famiglia delle donne che venivano scelte come future spose: se la figlia non gli veniva data in sposa potevano arrivare ad uccidere tutti gli altri membri della famiglia, metterli in prigione o torturarli. Un’ulteriore regola  imposta da Daesh era il divieto per tutte le donne di poter lasciare la città.

Monumento islamico della città di Raqqa distrutto dall’iSIS,( Luglio 2019)

Ci tengono a raccontarci come prima dell’arrivo di Daesh la città di Raqqa fosse una fucina di culture ed etnie molto differenti tra loro. Una città che al suo interno conservava diversi luoghi di culto, non solo islamici ma anche cristiani, dove le strade erano animate da una mescolanza di lingue, accenti e dialetti. Più volte ci tengono a dirci come Daesh non sia assolutamente una parte o una rappresentanza della cultura e della religione islamica, infatti facendoci vedere moschee e luoghi simbolo dell’islam ci raccontano come gli uomini del califfato le abbiano totalmente ridotte in macerie, distruggendo pezzi di storia e di religione. ‘’Non sono persone mosse da un credo religioso. Questo non è l’islam, ma una cultura dell’odio, della tortura, della violenza e delle uccisioni”.

Quando lo stato Islamico è arrivato in città ha iniziato a rompere la convivenza e la multiculturalità presente e ha iniziato a separare la popolazione. Rinchiudeva le donne in casa, mandava via i curdi dalla città, e attaccava i luoghi di culto della comunità cristiana e successivamente anche quelli islamici, fino a costruire passo dopo passo una società basata sulla paura e sulla rigida restrizione della libertà. Le donne che hanno vissuto il periodo d’invasione di Daesh sono state sottoposte ad atrocità indescrivibili, difficili da raccontare, che hanno portato spesso a un clima non solo di terrore ma anche di grande rassegnazione. Si è accesa una speranza importante però quando Daesh è stato cacciato da Kobanê e le YPJ e YPG hanno iniziato l’avanzata ad est dell’Eufrate. Queste storie di liberazione sono arrivate anche alle donne di Raqqa che iniziarono a far crescere anche in loro una spinta verso l’eliminazione del regime jihadista. “Come donne di Raqqa ci siamo unite subito alle SDF poiché avevamo subìto così tanta violenza e brutalità che non potevamo non unirci ai compagni e alle compagne e iniziare a lottare’’. Le hevalen delle commissioni di Raqqa continuano a raccontarci la loro esperienza dicendo che ‘’quando Raqqa è stata liberata non avevamo nessuna fondazione o struttura per le donne, e abbiamo iniziato ad attivarci per la costruzione di comitati. Quando abbiamo iniziato a fondare i primi comitati per le donne era un enorme dolore già solo quello di uscire di casa e vedere la città così distrutta e ridotta in macerie. Sapevamo bene qual era la situazione intorno a noi, quanti orrori e torture avevano vissuto tutte le donne. Ci è stato subito chiaro che il primo lavoro da iniziare a intavolare con il comitato era quello dell’educazione: far capire che tutte potevamo giungere a una condizione di libertà e tutto ciò che avevamo vissuto non era una normale quotidianità, ma frutto di un sistema orribile di Daesh che doveva e poteva essere distrutto”. La liberazione di Raqqa è stato solo il punto zero per ripartire con la costruzione di una nuova società, un lavoro costante e quotidiano, capillare e lento, finalizzato a rompere ed eliminare la terribile mentalità sviluppata dagli uomini in secoli di patriarcato e in anni di egemonia jihadista. Ci dicono come il 30% degli uomini di Raqqa è attivo in un percorso di rieducazione, ma c’è ancora tanto da fare per ribaltare lo stato delle cose. Nella rieducazione sono partite dai problemi maggiori che vedevano e sentivano nella loro società, infatti in questo momento stanno lavorando per vietare la poligamia, matrimoni forzati e infantili. ‘’Quando ci dicono che la poligamia è promossa nel Corano rispondiamo determinate che siamo andate a studiare e rileggere il corano ed in esso è scritto che per un uomo è prevista una sola donna’’. È così che stanno decostruendo tutto, rimettendo in discussione secoli di storia, studiando ed educando verso una società femminista e libera dalla mentalità del maschio dominante e rivalorizzando figure femminili antiche anche nell’Islam. Con enorme coraggio e lavoro le donne hanno iniziato a costruire realtà per donne prima nei villaggi circostanti la città, dando vita alle komine, spazi liberi in cui tutte possono recarsi per chiedere aiuto e confrontarsi sui problemi che hanno, fino ad arrivare a costruirne altre nel centro città, e creare così un consiglio delle komine di Raqqa. In questo momento esistono 400 komine e 17 consigli per donne in tutta l’area di Raqqa, divise in comitati che si occupano di educazione, economia, salute, media, archivi del materiale storico. L’obiettivo di questi consigli è creare spazi per donne, dar voce alle loro rivendicazioni e alle loro volontà. Ci colpisce il simbolo dei consigli delle donne di Raqqa, una donna con una stella, simbolo di una presenza importante, brillante e piena di una luce che non dovranno più perdere, una luce che è vita.

È davvero emozionante vedere, in una città assediata per anni da Daesh, la forza e la volontà di donne che lottano, lavorano e studiano per creare una società multiculturale ed egualitaria, che discutono con grande determinazione e speranza sul loro futuro. Un futuro che crediamo possa essere anche il nostro, un futuro e una lotta che ci accumuna verso una società libera e donna.

Delegazione italianai Rete Jin incontra la Reverberiya Jinê ya Reqayê (Luglio 2019)

Manbij

Prima di visitare Raqqa con la nostra delegazione ci siamo spostate per la prima volta a ovest dell’Eufrate, superando questo fiume così imponente e pieno di storia e muovendoci per qualche chilometro, arriviamo nella città di Manbij.

Manbij è una località a nord ovest della Siria dove la lingua ufficiale è l’arabo, legata alla maggioranza etnica, ma dove sono presenti anche comunità curde, cecene, circasse e turkmene. Come altri territori della Siria del Nord, anche la città di Manbij nella primavera del 2014 venne assediata dalla Stato Islamico e portata a uno stato di terrore per quasi tre anni fino alla liberazione da parte delle SDF.

Lì incontriamo le donne della commissione economica della città: donne piene di energia e vita che ci accolgono con un ritmo incessante di baci e tanta gioia negli occhi per averci lì. Forse è la prima volta che abbiamo un’accoglienza così calorosa e poco formale e il fatto che avvenga in una città così complessa ci lascia piacevolmente sorprese.