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La Turchia è decisa a distruggere il baluardo della liberazione delle donne in Siria del Nord. Ma le donne del Rojava non si arrenderanno, scrive Dilar Dirik.

di Dilar Dirik sul New Internationalist (23 giugno 2020)

Dilar Dirik è attivista nel movimento delle donne curde e assegnista di ricerca al Centro Studi sui Rifugiati [Refugee Studies Centre] dell’Università di Oxford.

Donne a Qamishlo, la capitale di fatto del Rojava, protestano contro un accordo turco-russo che minaccia loro e le conquiste della loro rivoluzione. Delil Souleiman/AFP/Getty

Ogni giorno, presto, Ilham, una donna curda sui sessant’anni, si alza per andare alla sua Mala Jin – o Casa delle Donne – nella città di Qamishlo (Qamishli) in Siria del Nord. Là, con colleghe che vanno dalle ragazze adolescenti alle donne della sua età, prova ad aiutare nella risoluzione di questioni sollevate dalle donne del suo distretto.

Tra di esse ci sono la violenza domestica e i cosiddetti “delitti d’onore”. La Mala Jin aiuta le donne a lasciare partner violenti, supporta l’indipendenza economica e si organizza contro il sessismo e la violenza nella comunità. Ilham ascolta ed esamina casi individuali visitando le donne che si sono confidate con lei. Dalla creazione della prima Mala Jin nel 2012, il movimento delle donne le ha diffuse nei villaggi e nelle città. Sono considerate tra le istituzioni più efficienti che si occupano di questioni sociali delle donne e sono uno dei motivi per cui le persone fanno riferimento ai traguardi di questa regione come a “una rivoluzione delle donne”.

Molto prima che la coalizione guidata dagli USA contro l’ISIS venisse formata, le donne curde erano in prima linea nella guerra contro l’ISIS e gli affiliati di al-Qaeda in Siria del Nord – un’area che i curdi chiamano Rojava o Kurdistan occidentale. Nel 2013, le donne hanno formato le autonome Unità di protezione delle Donne (YPJ), che insieme alla loro controparte maschile, le Unità di protezione del Popolo (YPG) e ad altre unità, avrebbero formato le Forze Siriane Democratiche, che nel 2019 hanno messo fine al controllo territoriale dell’ISIS.

Le combattenti sono sempre state chiare sul loro essere una forza di autodifesa all’interno di un progetto di emancipazione più ampio, una rivoluzione sociale con la liberazione delle donne come cuore della lotta per una società libera.

Da luglio 2012, l’Amministrazione autonoma della Siria del Nord e dell’Est ha fatto notevoli passi verso la concreta realizzazione dei diritti delle donne in tutte le sfere della vita. I suoi documenti legali sanciscono la parità di genere e il contrasto della violenza contro le donne come principi centrali.

In tutte le zone dell’amministrazione autogovernata è in atto un sistema di co-presidenza, in base al quale una donna e un uomo condividono il potere e la responsabilità equamente. Le donne sono negoziatrici politiche primarie per conto della loro regione. Ci sono molte comuni, assemblee, cooperative e accademie di donne partite dal basso. Ma tutto questo è sotto attacco da parte delle operazioni militari turche in Siria settentrionale.

“Ramo d’ulivo” e “Sorgente di pace”

Per anni, il governo di Erdogan in Turchia ha insistito che non c’è differenza tra l’ISIS e il sistema di autogoverno a maggioranza curda del Rojava. Entrambi sono visti come minacce terroristiche per la sicurezza nazionale turca. La Turchia ha lanciato due grandi operazioni militari con l’obiettivo di occupare queste regioni: “Olive Branch” [Ramo d’ulivo] ad Afrin nel gennaio 2018 e “Peace Spring” [Sorgente di pace] sull’area di confine tra Serêkaniyê (Ras al-Ain) e Girê Spî (Tell Abyad) nell’ottobre 2019.

L’esercito turco, il secondo più grande della NATO, è aiutato dal suo braccio armato che chiama l’“Esercito nazionale siriano”: un’unione di battaglioni con ideologie islamiste radicali, addestrati, armati e finanziati dalla Turchia.

Organizzazioni come Amnesty International hanno documentato i crimini di guerra e le violazioni dei diritti umani commessi dalla Turchia e dai suoi alleati ad Afrin.

Poco dopo aver lanciato “Peace Spring” lo scorso autunno, il presidente Erdoğan ha usato il linguaggio della pulizia etnica, dicendo che le aree che considerava parte della sua “zona di sicurezza” erano “inadatte per lo stile di vita dei curdi”, ma adatte per quello degli arabi. Come ad Afrin l’anno precedente, la Turchia pianifica di ridurre e sostituire la popolazione curda e far stabilire gli arabi nell’area.

I rapporti sui diritti umani sulla campagna della Turchia “Peace Spring” confermano assassinio, aggressione, rapimento, saccheggio e trasferimento forzato su larga scala e in modo sistematico – in accordo con i crimini di guerra e le violazioni dei diritti umani documentati ad Afrin. Secondo i numeri forniti dall’ONU, 100mila persone erano già state evacuate due giorni dopo l’inizio dell’operazione. Il numero è raddoppiato in due settimane.

Sul campo, il Centro Informazioni del Rojava [Rojava Information Center] documenta l’impatto delle invasioni turche sulla lotta tuttora in corso contro le cellule dormienti dell’ISIS. Il loro ritrovamento dimostra che l’ISIS è stato significativamente potenziato dalla brutale aggressione turca, e che i suoi membri fatti prigionieri sono in grado di fuggire e riunirsi.

Rapite, torturate e uccise

Ho visitato l’ultima volta la regione poco dopo l’invasione turca di Afrin nella primavera del 2018. All’Assemblea delle Donne di Manbij, donne di etnia turkmena, araba, circassa e curda, che hanno vissuto sotto l’ISIS per anni, parlavano dei loro nuovi progetti per trasformare le loro comunità e mettere fine alla violenza contro le donne. Una turkmena, un’insegnante, che aveva assistito a esecuzioni pubbliche, sottolineava che qualsiasi invasione turca sarebbe stata nociva per gli sforzi di coesistenza delle comunità e il risultato sarebbe stata violenza etnica e religiosa. I suoi timori sono stati confermati un anno dopo.

Per le donne, i luoghi occupati dai turchi come Afrin, dove le YPJ si sono formate per la prima volta, non sono più riconoscibili. Alle comunità non musulmane come quella yazida sono imposte ideologie estremiste e conversione forzata. Le donne sono quasi scomparse dalla sfera pubblica. Ogni singola struttura e organizzazione delle donne creata dal 2012 è stata sciolta dall’occupazione. Alcuni dati prodotti dalla ricercatrice Meghan Bodette, cui il New Internationalist ha avuto accesso, documentano dozzine di donne torturate e sequestrate a scopo d’estorsione. Un rapporto della Commissione d’inchiesta internazionale indipendente sulla Repubblica araba siriana afferma che “prendendo di mira quasi ogni aspetto della vita delle donne curde nel distretto di Afrin e – progressivamente – nelle aree colpite dall’operazione ‘Peace Spring’, i gruppi armati generavano timore palpabile di violenza e coercizione tra la popolazione femminile curda”.

Una delle atrocità documentate dell’invasione dello Stato turco ad Afrin è stata la mutilazione del cadavere della combattente YPJ Barin Kobane, filmato mentre veniva esposto, violentato e trascinato sul terreno, circondato da estremisti. Similmente, il cadavere della combattente YPJ Amara Renas è stato filmato mentre veniva abusato dalle squadracce alleate della Turchia. Tre giorni dopo l’inizio dell’invasione “Peace Spring”, Hevrin Khalaf, giovane attivista e leader del Partito della Siria del Futuro, è stata trascinata fuori dal suo veicolo, torturata e uccisa dalla Ahrar al-Sharqiyah, una delle forze estremiste all’interno dell’Esercito nazionale siriano appoggiato dalla Turchia, secondo un rapporto investigativo della BBC araba. Le uccisioni in forma di esecuzioni e la tortura sessualizzata di combattenti curde sono state comparate ai metodi impiegati dall’ISIS in passato, ma hanno una lunga storia anche nell’esercito turco.

Sosin Qamishlo, membro del consiglio militare della regione di Cizire e portavoce delle YPJ, mi ha detto: “Ai nostri occhi, l’ISIS e lo Stato turco sono forze di occupazione che condividono lo stesso metodo e la stessa logica. Prendendo di mira consapevolmente le donne in particolare, lo Stato turco e i suoi mercenari usano gli stessi metodi dell’ISIS per piegare la resistenza delle donne. I modi in cui i curdi, gli arabi, gli armeni, i siriaci, gli assiri e i turkmeni della regione hanno iniziato a organizzarsi sono una spina nel fianco sia per l’ISIS che per lo Stato turco”.

Appello a tutte le donne!

Evîn Swed, portavoce del Kongra Star, l’organizzazione-ombrello del movimento delle donne del Rojava, riferisce che nonostante le loro strutture siano state distrutte nelle aree occupate dalla Turchia, le attiviste hanno continuato ad organizzare le donne in autonomia anche da sfollate internamente in città limitrofe e campi profughi.

“Accettare l’occupazione non è un’opzione” dice. “Negli scorsi nove anni, questa regione e le diverse comunità che vivono in essa hanno resistito a ogni sorta di attacco e violenza, inclusi i piani per il loro trasferimento forzato”.

Evîn considera equivalenti la mentalità e i metodi impiegati dall’invasione turca e la natura patriarcale della violenza dell’ISIS, citando casi di stupro, molestie sessuali, uccisione, matrimonio forzato compreso quello minorile, tutto su base sistematica. “Ciò che tutti [gli aggressori] hanno in comune è una mentalità sessista e il desiderio di distruggere la volontà libera delle donne”.

Secondo Evîn, le donne che sono ancora in queste regioni e sono conosciute per il loro lavoro nel Kongra Star e nelle strutture affiliate sono minacciate e aggredite.

La pandemia del Coronavirus attualmente aggrava la crisi umanitaria preesistente causata dalle campagne militari turche. La stazione idrica di Alouk, situata a Serêkaniyê, è stata sequestrata dalla Turchia e dai suoi alleati e ora è utilizzata per interrompere il rifornimento idrico alle regioni curde. Secondo un comunicato pubblicato da Human Rights Watch nell’aprile 2020, queste misure riducono la disponibilità d’acqua per almeno 460mila persone nel governatorato di al-Hasakeh, che ospita decine di migliaia di rifugiati interni ma anche prigionieri dell’ISIS. All’inizio della primavera, la Turchia ha iniziato a bombardare la regione di Shehba (Shahba), dimora della popolazione evacuata di Afrin.

Nonostante questo cumulo di avversità, il movimento delle donne è determinato a continuare la lotta. In risposta alle invasioni turche, centinaia di migliaia di donne dalle diverse comunità della Siria del Nord sono scese in piazza. Nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne, tutte le organizzazioni delle donne della Siria del Nord hanno organizzato grandi manifestazioni in tutta la regione con lo slogan “l’occupazione è violenza”. A queste azioni locali hanno fatto eco azioni femministe in tutto il mondo con la campagna “Women Defend Rojava”.

“Giorno e notte compiamo sforzi per lottare contro l’occupazione” dice Evîn. “Il nostro obiettivo è che queste aree siano liberate e il nostro popolo veda un ritorno dignitoso. Entrambe le cose devono essere guidate dalle donne organizzate e libere”. Similmente, Sosin riafferma la determinazione delle YPJ: “La mentalità sessista degli occupanti pensa che brutalizzare le donne renderà la popolazione pacifica, ma vediamo che sta accadendo l’opposto. Come YPJ, ma più in generale, come movimento delle donne della Siria del Nord e dell’Est, siamo più determinate che mai a lottare contro l’occupazione. Facciamo appello alle donne di tutto il mondo affinché stiano al fianco della rivoluzione delle donne. Come YPJ, presenteremo il conto agli occupanti con la resistenza. La resistenza è vita”.