Le terre intorno al Monte Cudi: spazi di vita libera insieme
I campi aridi sono diventati verdi, la rugiada della mattina brilla al risveglio del sole e lascia scoprire ogni giorno un paesaggio più bello e più vivo.
È il mese di novembre, l’inizio di un nuovo ciclo.
Ci svegliamo faticosamente, e coperte delle nostre sciarpe e berretti prendiamo la strada verso questi paesaggi, per partecipare anche noi al risveglio (mattutino assai).
Davanti a noi si erge questa incredibile montagna, che le prime luci del’alba ci svelano sempre più maestosa. Questa incredibile montagna dove da un lato si trova la zona autonoma del Kurdistan siriano (Rojava) e del’altro il Kurdistan turco (Bakur) ha una storia particolare.
Questa storia è quella di Noé, della sua arca e del diluvio, e questa montagna è il monte Cudi (si legge “giudi” – Al Joudi in arabo).
Mentre il Corano situa la sura del diluvio sul monte Cudi, nella Bibbia questo stesso episodio prende luogo sul monte Ararat, al confine tra la Turchia e l’Armenia.
Il profeta Noé (NôuH in arabo), mandato da Allah, aveva come missione di portare un messaggio sacro alle diverse comunità che vivevano in queste terre della Mesopotamia. La reticenza del popolo davanti a questo nuovo messaggio spinse il profeta ad andare di nuovo nelle comunità per informare che una grande disgrazia si sarebbe riversata su di loro se non avessero cambiato atteggiamento.
Nonostante la minaccia del profeta niente cambiò, i popoli continuarono a comportarsi da infedeli, con le loro pratiche perfide e subdole. Seguendo le direttive di Allah, il profeta Noé dovette recuperare una coppia di un maschio e una femmina di ogni essere vivente per portarli sulla sua arca e salvarsi così dal diluvio. Una volta riempita, l’arca si diresse verso il solo luogo dove si poteva scappare dalla grande alluvione, il monte Cudi.
Quando l’arca di Noé fu in sicurezza, il diluvio si abbatté sulla terra e distrusse tutto al suo passaggio, villaggi, terre così come le comunità degli infedeli. Non c’era più nessuna traccia di vita. Dopo questo diluvio, rimaneva solo da ripopolare e ricostruire la terra adesso inabitata, con ogni essere vivente che Noé e il monte Cudi avevano protetto. L’obiettivo era di portare nuovamente il messaggio divino di Allah alle comunità e agli esseri viventi che avrebbero coabitato su questa terra nuova.
Attualmente il monte Cudi è testimone di un nuovo caos, un nuovo diluvio. Sebbene diverso da quello descritto nel Corano o nella Bibbia, questo luogo simbolico è ora soggetto ad una terribile guerra portata avanti dallo Stato turco contro il popolo kurdo del Rojava e del Bakur. Oggi il monte Cudi è sipario della guerriglia messa in atto dal PKK che protegge questo territorio e il popolo che lo abita dalle violenze dello stato turco. Da poco, gli attacchi che partono dalle basi militari turche con droni e altri strumenti di guerra contro i compagni presenti nelle montagne si sono intensificati. Tanto che i bombardamenti sono diventati un’abitudine, come un sottofondo sonoro che nonostante il passare del tempo continua a sorprenderci, farci rabbia e a farci provare dolore.
Come se le storie o i miti si ripetessero… anche se il contesto politico attuale è tanto diverso, non vediamo la risonanza?
Dal mito alla realtà…
Vita quotidiana
Quando le prime luci dell’alba si distendono sul campo base, l’ultima sentinella della notte entra in stanza per dare il Rojbaş, il buongiorno. Per chi, come me fino all’altro ieri, non sapeva nemmeno esistessero le cinque del mattino, è un discreto shock “culturale”, ma ancora più arduo è sapere che senza nemmeno il tempo di un caffè ti troverai a correre o a far flessioni e addominali e solo allora potrai finalmente conquistare la prima colazione.
Il campo si trova in un luogo isolato e anche se il primo paese non è a molta distanza da qui, la vita che si conduce è quella della campagna: si seguono i ritmi del sole, ci si prende cura di piante e animali e si trovano soluzioni per ovviare ai problemi che di volta in volta sorgono. Ci si interroga dunque su come gestire la famiglia di ratti che vive nella stanza della logistica, o come comportarsi con i branchi di cani selvaggi che si riproducono come topi e presenziano fissi davanti al campo in cerca di cibo, o ancora come costruire una zattera per poter pescare nel fiume e come evitare che il campo si trasformi in un enorme pozzanghera ogni volta che piove. Dunque ci si comincia ad ingegnare e si scopre che pulire la cucina a fondo, ogni giorno, è un primo e fondamentale passo verso la sopravvivenza, o forse questa è una scoperta solo per me, ma tant’è. Allora dai di spugna e candeggina, metti i barattoli, togli i barattoli, cospargi il pavimento con abbondante detersivo, ma sopratutto accendi le casse e trasforma questo rituale serale in una scatenata festa danzante, se poi qualcuno va in città e porta un energy drink, ancora meglio; o ancora ci si mette di buzzo buono e con pietre e cemento si costruiscono piccole arterie, che collegando il bagno alla cucina e la cucina alla camera, per risolvere il problema pozzanghera, e così via.
Questa, tuttavia, non è una semplice vita di campagna, è una vita di campagna profondamente collettiva e comunitaria: non esiste proprietà privata, gli spazi sono condivisi, le decisioni vengono prese in forma collettiva e c’è un passaggio di saperi orizzontale fra le compagne che sono qui da più tempo e noi pischelle appena arrivate (fra cui quelle che non hanno mai pulito davvero a fondo una cucina), ma c’è ancora dell’altro. Questa vita di campagna comunitaria apparentemente isolata è in realtà un pezzetto di un quadro molto più grande, un ingranaggio di una macchina, di cui seppure non vedi bene il quadro completo, riesci a sentire e percepire la presenza sempre e intimamente.
“A volte stando qui ci si dimentica quasi che siamo in guerra”, mi ha detto una compagna, uno dei primi giorni qui. Questo non solo è vero, ma non è nemmeno un caso, o un accidente, è piuttosto il risultato ottenuto da chi, con caparbia ostinazione contraria, continua a strappare e costruire spazzi di vita alla prevaricazione e alla morte. La rivoluzione si fa anche con le armi, sul fronte, si fa anche uccidendo il nemico, ma si fa anche e soprattutto creando una mentalità fuori dal potere, dal capitalismo e dal patriarcato e inventando una realtà che la possa contenere e praticare quotidianamente. E perché questo mondo di libertà sia possibile, perché si possa sconfiggere la mortifera depredazione a cui ci sottopongono fascismo e capitalismo è necessario che tutte e tutti impariamo tanto a combattere, ad autodifenderci, quanto a costruire spazi di vita libera insieme.
Penso alla feroce individualità delle nostre vite.
Abbiamo conosciuto altre ragazze provenienti da posti diversi e insieme a loro da domani iniziamo l’educazione. Questi primi giorni sono stati anche molto intensi perché ci siamo trovate in luogo diverso da quello da dove proveniamo, dove tutto diciamo è “a portata di mano”.
Il capitalismo è anche quella cosa che per farsi volere bene riesce a farti sentire la necessità di volere una cosa anche quando non ti serve e di riuscire a fartela trovare facilmente. Altro aspetto prezioso è che qui ti insegnano (se così si può dire perché avviene tutto abbastanza nella pratica) a prenderti cura dell’altro in ogni momento. Anche per questo come molti sanno o ne hanno sentito parlare ti viene offerto o offri il chai (thè nero) come benvenuto e quasi in ogni momento. Ciò è proprio la metafora che il benvenuto è sempre in primo piano. Può sembrare scontato, ma la rivoluzione parte anche da qui. E non si tratta di apparenza, cortesia o di circostanza, è proprio un modo di partecipare, percepire ed essere rivoluzione in tutto. Questo atteggiamento è molto importante, poiché al di là dei lavori fisici e dell’educazione fisica, aiuta a stabilire rapporti sinceri tra tutte o almeno si cerca di farlo.
Resistere qui significa anche farlo quando possono capitare momenti di incomprensione, cercando di accettare ed elaborare le critiche costruttive che vengono poste dalle compagne. Aspetti di un meccanismo che riesce a farti crescere e metterti alla prova, permettendoti di avere attraverso la visione esterna del racconto delle compagne, una maggiore conoscenza di te stessa. Inoltre abbiamo anche iniziato a fare le prime lezioni di lingua curda, molte parole sono simili a quelle italiane ed è molto bello scoprire una lingua che la dittatura invece vuole cancellare dalla faccia della terra. Sono felice anche per questo motivo di poterla imparare, dato che è una lingua molto antica e quasi tutti i nomi propri hanno un significato che arriva da molto lontano.
Nell’apprendere le varie discipline non ci sono ruoli o almeno io non li avverto ma assunzioni di responsabilità collettive, in qualche modo tutte possiamo essere in grado di raggiungere l’obiettivo insieme. Non mancano le difficoltà ovviamente, ma nessuna è lasciata indietro, anzi, ognuna con le proprie fragilità o impedimenti viene considerata come se tutte noi avessimo una visione allargata di tutto ciò che c’è intorno. Proprio perché non c’è individualismo, come la proprietà privata ad esempio impone, tutto viene condiviso, anche le difficoltà che una compagna può avere, cercando di non farla sentire mai sola.
Chiaro è che non mancano le risate rispetto al nostro gruppo di italiane, che tutto sono tranne delle eroine… ma sicuramente è proprio questo che ci fa sentire vere e vive, perché alla fine non è la perfezione che fa di noi delle persone, ma il fatto di mostrarci e valorizzare anche con tutti gli altri le nostre caratteristiche sia positive che negative. A volte penso che questo piccolo posto di mondo abbia davvero qualcosa di speciale, poiché tutti sono disponibili ad “amarti”, tutti in qualche modo si mettono a disposizione, donano cose pur sapendo che quella cosa è personale o magari non la potranno mai più utilizzare, anche se gli serve te la regalano. Hanno uno sguardo sempre al fatto che non bisogna mai scivolare o distogliere l’attenzione da quello che il nemico vorrebbe.
Sono riusciti – anche perché credo sia una particolarità che scorre nel loro sangue- a dare vita ad una vera società, in cui un bene o una capacità è al servizio di qualcun’altra/o e che qualsiasi cosa offrano è volta all’accrescimento del singolo che è parte di una visione collettiva.
Questo lo ammiro tanto e rappresenta la chiave di tutto o almeno una risposta vera anche per i nostri paesi, poiché credo che il fascismo vada sconfitto dentro noi stessi e per farlo dobbiamo metterci alla prova, scontrandoci a volte, ma avendo sempre in mente di costruire insieme, attraverso le pratiche e i metodi, un nuovo modo per autodeterminarci, per autodifendere le nostre ricchezze interiori; di far crescere la voglia non solo di guardare la rivoluzione ma riuscire, senza avere fretta, ad aggiungere dei pezzetti al puzzle.
Jin Jiyan Azadi
Un abbraccio resistente a tutt*
Brigata Maddalena.